PALAZZO MANFREDI
La Famiglia Manfredi di Pieve di Teco proviene da un ramo dei Manfredi che giunse nel territorio da Faenza, dove erano stati sconfitti e avevano perduto la Signoria nel 1501 con l’ assedio di Faenza da parte di Cesare Borgia, il Valentino figlio di papa Borgia Alessandro VI.
*
Proprio in quegli anni coincide la comparsa della famiglia a Pieve e la costruzione del Palazzo.
I Manfredi vi abitarono sin da subito a cavallo tra i secoli XV e XVI e vi risiedono tuttora.
Il palazzo si trova in una posizione importante, centrale rispetto al paese e soprattutto vicino ad un corso d’acqua che permetteva il funzionamento di un mulino posto alle spalle del palazzo.
L’ingresso è un antico portone in legno rivestito di lastre di ferro chiodate al di sopra del quale troviamo un medaglione in ardesia raffigurante il blasone della Famiglia.
Esso si compone di un braccio centrale con tre dita sollevate, affiancato da due leoni rampanti con aquila coronata e sormontati da un elmo piumato. Versione, questa, più pacifica dell’originale, nella quale vi era un solo un dito mostrato come monito di stare in guardia, ancora visibile nello stemma in legno che corona la grande libreria della sala!
di fianco alla scala di accesso ai piani superiori vi è una postazione di guardia che aveva una porticina di accesso laterale con i locali accanto, dell’attuale farmacia. tutti i locali posti ai piedi del palazzo erano magazzini, lo sono stati fino a dopo la guerra. quella che oggi era la farmacia, corrisponde nella parte posteriore al cavedio posto al centro della casa tramite il quale veniva raccolta l’acqua piovana proprio nei locali sopraelevati che ospitavano un capiente bacino.
Si percorre una bella scala di rappresentanza in marmo, che ha sostituito nei primi decenni del ‘900 la vecchia scalinata in ardesia e ciottoli di fiume, tipica delle case antiche della zona. vi si poteva leggere in una targa l’iscrizione “riattata nell’anno 1628”, dopo le vicissitudini legate al Sacco di Pieve del 1625 causate dalle invasioni da parte del Ducato di Savoia ai danni della Repubblica di Genova, di cui Pieve era l’ultimo baluardo.
si raggiunge così il salone centrale, alto quasi sette metri, che ha subito un importante restauro degli affreschi, riuscendo a mantenere intatti i soffitti lignei in canniccio, originali .
Tutto il piano nobile è rivestito da pavimenti in graniglia genovese di diverse decorazioni.
In un sala di passaggio notiamo una tela originale del Pittore Giulio Benso (Pieve di Teco, 1592–1668) denominata Madonna dell’Arco raffigurante una Madonna con bambino, tobiolo e l’arcangelo Raffaele (quello che poi darà vita alla figura dell'angelo custode) seduti sotto un arco sostenuto da capitelli, posto in corrispondenza di una crociera di chiesa, con puttini danzanti sul loro capo alla sommità del tiburio.
Negli anni più o meno contemporanei al pittore Benso, un’illustre esponente della famiglia, Paolo Manfredi, ricoprì importanti missioni presso le corti estere in qualità di Segretario di Stato della Repubblica di Genova.
Negli ultimi due secoli hanno dato lustro alla Famiglia alcune personalità militari, ricordati in diverse lapidi poste nell’atrio della scala del palazzo.
Il primo è Giovanni Manfredi di Savona, aiutante Maggiore di Fanteria morto nel 1864 in servizio.
Il secondo è Sebastiano Manfredi, Maggiore degli Alpini caduto nella battaglia di Adua 1896 a cui è stata dedicata la Caserma che fu del Battaglione Alpini Pieve di Teco che si distinse valorosamente in entrambe le guerre.
Una terza lapide è alla memoria di Oberto Manfredi, ufficiale della Regia Marina perito nella battaglia navale di Capo Matapan nel 1941.
Dell’ampia collezione di documenti storici presenti negli Archivi, sia privati sia pubblici, spiccano un documento firmato da James Stuart, Giacomo II d’Inghilterra, ultimo Re cattolico, che assegna a Sebastiano Manfredi ed ai suoi eredi protezione per sé e per i suoi discendenti, nonché la Croce dell’Ordine Cavalleresco di Sant’Andrea, in segno di amicizia per servigi e aiuti resi al sovrano durante il suo periodo di soggiorno in Francia.
Altro documento firmato dal Re Carlo Emanuele di Savoia, datato 6 ottobre 1746, che recita, in sunto:
“ …Ordiniamo pertanto, ed espressamente comandiamo a tutti gli ufficiali di qualsivoglia grado e posizione si sia, ed ai soldati tanti d’Infanteria che di Cavalleria e generalmente a tutti coloro che riconoscono l’autorità Nostra, di non fare né cagionare meno permettere che venga fatto né cagionato alcun danno al suddetto Sebastiano Manfredi e sua Famiglia , alle sue Case, ville, Mobili, Effetti, beni e persone addette alla coltura di essi, non solamente per mezzo di estorsioni di danari, bestiami ed altre estorsioni militari di qualunque natura e sotto qualsivoglia pretesto che siasi: ma particolarmente per via di furti, saccheggi ed altre violenze.
Il tutto sotto pena di castigo corporale che si estenda sino alla morte secondo l’eccesso della violenza che sarà stata commessa. Tale essendo la volontà nostra .
Dal nostro quartiere di Bordighera li 6 Ottobre 1746
Firmato C. Emanuele.
nel 1870, Cristoforo Manfredi, Maggiore dell’Esercito Piemontese a Roma per l’Unità d’Italia, sposa una giovanissima Carlotta Fabj Altini che discendeva da una famiglia di nobili origini di Fabriano (Ancona); la sua nonna, di Senigallia (An), era sorella di Giovanni Mastai Ferretti, che salì al Soglio Pontificio con il nome di Pio IX . Cristoforo Manfredi, dopo l’Unità d’Italia del 1861, partecipò attivamente anche con numerose sue pubblicazioni, alla costituzione dell’Archivio Storico Militare Italiano a Roma.
Nel 1956 Gian Carlo Manfredi sposa, nel castello di Mezzocorona, la Contessa Carla FIRMIAN, testimone di nozze il fratello3 Ammiraglio Giuseppe Manfredi.
Tra i tanti personaggi illustri della famiglia, il Conte Carlo Firmian governatore plenipotenziario della Lombardia dal 1758 al 1782 durante l'Impero di Maria Teresa, promosse la realizzazione del Teatro alla Scala di Milano considerato tra i più prestigiosi teatri al mondo. Il Conte Carlo Firmian fu promotore della fama di Mozart in Italia, il quale fu anche ospitato per un periodo a Castel Firmian tra il 1769 e il 1773.
Inoltre fu tramite politico del matrimonio tra l’Arciduchessa d’Austria Maria Carolina e Ferdinando IV Re di Napoli (Ferdinando I Due Sicilie) nel 1790.
Nelle lunette poste sulle porte del salone si possono distinguere Castel Firmian e castel San Gottardo a Mezzocorona, Castel Firmianus a Bolzano e Leopoldskrone a Salisburgo.
La parte retrostante del palazzo comprendeva la cappella ora dismessa, è composta di camere meno ampie che hanno ingresso secondario sulla strada posteriore, oggi via Umberto, esattamente di fronte al Teatro Salvini, voluto ed eretto da Giuseppe Manfredi nel 1834, tra i più piccoli d'Italia.
Per tutto il XIX secolo e sino agli anni Venti il teatro ha avuto un'attività intensa ospitando con una certa regolarità opere liriche e spettacoli. Dal 1920, complice una vasta crisi economica, vi fu un lento declino che portò alla chiusura del teatro. Fu venduto alla Provincia di Imperia alla fine degli anni Novanta dal Dott. Gian Carlo Manfredi e suo fratello, l’ Ammiraglio Gian Battista Manfredi e restaurato con l’aiuto della Fondazione Carige.
——————————————————————————————————————————————
* Faenza si trovava sotto la protezione di Venezia che nel frattempo era stata sconfitta dai Turchi nel Peloponneso e cercava aiuto dal pontefice, cioè la bolla da lui promessa per la crociata. Questi aveva peraltro un buon alibi per il decreto di morte delle signorie romagnole: la non riscossione dei canoni dovuti allo Stato della Chiesa dai signori di Romagna e Marche. Astorgio III Manfredi, quattordicenne, signore bambino di Faenza, vicario della Santa Sede, tentò di tornare in grazia del pontefice; inviò a Roma nel gennaio del 1500 il giureconsulto Gabriele Calderoni a pagare il canone annuo, 1009 ducati. A nulla valse il tentativo: al Calderoni non restò che depositare il danaro nel banco di Stefano Ghinuzzi, a Roma, redigere una protesta e ripartire per Faenza di fronte al netto rifiuto di papa Alessandro che non volle né confermare Astorgio come vicario, né togliere a lui la scomunica né I'interdetto a Faenza, comminati dal giugno, né riscuotere il censo, segni tutti della sua irrevocabile decisione su Faenza.
** Alberigo dei Manfredi Il 2 maggio 1285 invitò a convito presso la Castellina di Pieve Cesato, nella campagna faentina, due suoi parenti con i quali era in discordia, Manfredo e Alberghetto dei Manfredi, e li fece uccidere ad un segnale convenuto, pronunciando la ancora usata sentenza “siamo alla frutta!".
Alberigo, come poi Branca Doria, è uno dei personaggi che Dante incontra nell'Inferno, nonostante non sia ancora morto.
Il poeta spiega, infatti, che l'anima di un traditore, appena commesso il delitto, viene subito sprofondata nella Tolomea, mentre nel suo corpo sulla terra prende dimora un diavolo.
il dannato lo prega di togliergli il ghiaccio che gli si è formato sugli occhi impedendogli di piangere e Dante promette di farlo, possa egli andare in fondo all'Inferno (cosa che deve fare comunque per compiere il suo viaggio nell'oltretomba); allora Alberigo inizia a raccontargli di sé e dei suoi vicini di pena, inframezzando con frequenti richieste di togliere poi il ghiaccio.
Ma Dante alla fine si rifiuta di farlo, perché se in altre zone dell'Inferno si era mosso a pietà dei dannati, adesso ha compreso che la giustizia divina deve fare il suo corso e che alleviare le pene di questi sarebbe come andare contro Dio: cortesia fu lui esser villano, cioè fu moralmente giusto esser villano con lui.
E un de’ tristi de la fredda crosta
gridò a noi: "O anime crudeli
tanto che data v’è l’ultima posta,111
levatemi dal viso i duri veli,
sì ch’ïo sfoghi ’l duol che ’l cor m’impregna,
un poco, pria che ’l pianto si raggeli".114
Per ch’io a lui: "Se vuo’ ch’i’ ti sovvegna,
dimmi chi se’, e s’io non ti disbrigo,
al fondo de la ghiaccia ir mi convegna".117
Rispuose adunque: "I’ son frate Alberigo;
i’ son quel da le frutta del mal orto,
che qui riprendo dattero per figo".120
"Oh", diss’io lui, "or se’ tu ancor morto?".
Ed elli a me: "Come ’l mio corpo stea
nel mondo sù, nulla scïenza porto.123
Cotal vantaggio ha questa Tolomea,
che spesse volte l’anima ci cade
innanzi ch’Atropòs mossa le dea.126
E perché tu più volontier mi rade
le ’nvetrïate lagrime dal volto,
sappie che, tosto che l’anima trade129
come fec’ïo, il corpo suo l’è tolto
da un demonio, che poscia il governa
mentre che ’l tempo suo tutto sia vòlto.132
Ella ruina in sì fatta cisterna;
e forse pare ancor lo corpo suso
de l’ombra che di qua dietro mi verna.135
Tu ’l dei saper, se tu vien pur mo giuso:
elli è ser Branca Doria, e son più anni
poscia passati ch’el fu sì racchiuso".138
"Io credo", diss’io lui, "che tu m’inganni;
ché Branca Doria non morì unquanche,
e mangia e bee e dorme e veste panni".141
"Nel fosso sù", diss’el, "de’ Malebranche,
là dove bolle la tenace pece,
non era ancora giunto Michel Zanche,144
che questi lasciò il diavolo in sua vece
nel corpo suo, ed un suo prossimano
che ’l tradimento insieme con lui fece.147
Ma distendi oggimai in qua la mano;
aprimi li occhi". E io non gliel’apersi;
e cortesia fu lui esser villano.